Entropia. In teoria dell’informazione il termine serve ad indicare tutto ciò che è di impedimento alla chiarezza e precisione del messaggio. In parole povere, quanto maggiore è l’entropia, tanto minore è l’informazione trasferita, obbligando il ricevente del messaggio a fare salti mortali per ottenere una corretta ed univoca comprensione di quanto detto o scritto.
Ed ecco che, se volessimo riassumere l’attuale situazione politica ed economica italiana e le dichiarazioni dei leader politici, nessuna parola potrebbe apparire più appropriata. Ne abbiamo sentite tante, dall’indotto sui consumi che il bonus degli 80 euro avrebbe dovuto creare, alla flat tax come strumento per far rientrare capitali ed aumentare il gettito fiscale, facendo ripartire l’economia, passando per il reddito di cittadinanza e l’effetto moltiplicativo dei consumi sul reddito. Ma su quali teorie economiche si basa – più o meno consapevolmente – tutto questo? La situazione non si presenta molto chiara, ma proviamo lo stesso a mettervi un po’ di ordine, partendo da una prospettiva teorica che tiene in conto la storia del pensiero economico.
Per quanto possa sembrare strano e lontano dalla realtà, le idee degli economisti sono molto più potenti di quanto crediamo e continuano tuttora ad influenzare il nostro modo di pensare e leggere l’economia. Procediamo allora con una breve sintesi di quelle che sono le due ideologie predominanti quando parliamo di spesa pubblica, di tasse e dei loro effetti. Vedremo subito che tali teorie si collocano l’una all’opposto dell’altra e, come sarà facile intuire, entrambe portano importanti contributi, ma allo stesso tempo nessuna certezza.
L’effetto spiazzamento
Una prima teoria circa le manovre di politica fiscale consiste nel cosiddetto “effetto spiazzamento”, secondo cui un incremento della spesa pubblica finanziato tramite debito, in determinate circostanze, conduce ad una riduzione dei consumi e degli investimenti, lasciando quindi complessivamente invariato il reddito di un Paese. Secondo tale visione, dunque, aumentare la spesa pubblica non solo risulterebbe inutile da un punto di vista di crescita economica, ma sarebbe addirittura deleterio, in quanto il Paese si ritroverebbe con un maggiore ammontare di debito ed interessi da dover corrispondere, aggravando le finanze pubbliche.
Il punto cruciale diventa, però, capire come viene giustificato tale spiazzamento dei consumi e degli investimenti (noto in letteratura come crowding out effect).
Lo spiazzamento degli investimenti
Per quanto riguarda gli investimenti l’intuizione è piuttosto immediata: l’aumento del debito a causa di maggiori investimenti pubblici può comportare un più grande rischio sovrano e dunque un tasso di interesse più alto da corrispondere ai finanziatori, rendendo più difficile per le imprese ricevere capitali in prestito e finanziare il processo produttivo. In poche parole, l’investimento pubblico “spiazza” quello privato.
Tuttavia un ragionamento di tale tipo, benché non totalmente infondato, dà per scontati alcuni aspetti tutt’altro che ovvi. Il primo riguarda la competizione tra settore pubblico e privato nell’ottenimento dei fondi a prestito: si assume che il pubblico operi alle stesse condizioni economiche del privato e con il solito tasso di interesse di riferimento; ovvero in teoria economica, per semplificare, spesso il tasso d’interesse è uno solo. Ovviamente nella realtà non è così, e si ha eterogeneità non solo tra pubblico e privato, ma anche all’interno dei due settori (“between and within heterogeneity“).
La seconda assunzione, anch’essa molto forte e raramente verificata, riguarda l’entità dell’effetto spiazzamento. Infatti si assume che essa sia tale per cui lo stimolo della domanda tramite investimenti pubblici sia completamente annullato dalla riduzione degli investimenti privati. Ciò equivale a dire che le imprese arrivano necessariamente a fine anno senza risorse finanziarie in eccesso da investire (“excess capacities” in letteratura).
Lo spiazzamento dei consumi
Passando invece al secondo effetto dello spiazzamento, la teorizzata riduzione dei consumi a causa della maggiore spesa pubblica, finanziata tramite debito, è eredità storica dell’equivalenza Ricardiana. Tale equivalenza sostiene che per uno Stato è indifferente finanziare la spesa pubblica tramite debito o tramite incremento della tassazione: l’effetto complessivo sarà ancora nullo sul reddito nazionale, per il semplice motivo che maggiore debito oggi equivale a più tasse domani.
I consumatori ne sono pienamente consapevoli e pertanto di fronte ad una manovra di questo tipo inizierebbero a risparmiare di più oggi, riducendo i consumi, in modo da poter far fronte al maggiore carico fiscale futuro, causato dalla necessità di dover ripagare il debito. In sostanza, finanziare spesa pubblica a debito deprime la domanda interna allo stesso modo di un incremento della tassazione. Tale teoria poggia su una serie di assunzioni fallaci, come le aspettative razionali del consumatore che lo porterebbero ad internalizzare il bilancio dello Stato nelle proprie scelte; assunzioni per le quali lo stesso Ricardo rifiutò la propria teoria.
Il moltiplicatore fiscale
Passiamo ora all’altro filone teorico, quello keynesiano, basato principalmente sul moltiplicatore fiscale. L’intuizione di questo fattore è nella proprietà transitiva: maggiore investimento pubblico causa maggiore reddito, maggiore reddito causa maggiori consumi, maggiori consumi causano a loro volta maggiore reddito nazionale; si innesca così un effetto moltiplicativo decrescente nel tempo e convergente. L’idea è che poco importa fare spesa pubblica ricorrendo al debito, se ciò produce un aumento soddisfacente del PIL. Nella migliore delle ipotesi, a seconda dell’ampiezza del moltiplicatore, il rapporto debito/PIL potrebbe addirittura diminuire.
La criticità più significativa nella teoria economica di Keynes risiede nel fatto che gli investimenti pubblici sono considerati tutti efficienti, indifferentemente dal settore in cui i fondi pubblici vengono allocati e dalle modalità e condizioni d’investimento. In nessun modo il moltiplicatore fornisce concretamente indicazioni, parlando delle specifiche e chiare policy settoriali per risollevare l’economia.
Conclusioni
Le due teorie sono in evidente contrasto: l’unica certezza è che in economia la bacchetta magica non esiste. Di punti fermi ce ne sono veramente pochi, ma l’influenza che essa esercita sulle decisioni politiche è enorme. Sempre Keynes, infatti, affermava: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così come quelle giuste e sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga… Gli uomini della pratica, i quali si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Ma cosa dicono le più recenti ricerche empiriche circa l’attuazione di politiche fiscali espansive o restrittive? Dopo questa sintesi di teoria economica sulle ideologie di cui subiamo ancora le influenze, in un prossimo articolo passeremo ad una prospettiva più empirica, dando un’occhiata alle stime statistiche più recenti, effettuate dal Fondo Monetario Internazionale, circa le conseguenze di determinate politiche fiscali.
References
The General Theory of Employment, Interest, and Money; J. M. Keynes
Essay on the Funding System; D. Ricardo
Articolo realizzato con il contributo di Michele Zema,
dottorando in Economics alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
Leggi qui la seconda parte dell’articolo, relativa alle recenti evidenze empiriche in materia di politiche economiche:
https://startingfinance.com/politiche-economiche-evidenze-empiriche/