La Grecia rappresenta l’1,7%, circa, del PIL dell’Eurozona e l’1,2% di quello dell’Unione Europea. Si parla un Prodotto Interno Lordo che, secondo l’Istituto Statistico Ellenico (ELSTAT), era pari, nel 2016, a circa € 174 miliardi, con un calo dello 0,2% rispetto all’anno precedente.
L’ingresso della Grecia nell’euro
La Grecia è entrata nell’euro a partire dal 1° gennaio 2001. In precedenza, fu raggiunto l’accordo sul testo del Trattato di Maastricht, fra settembre e dicembre del 1991, nelle date del 1° gennaio 1994, 31 dicembre 1996 e 1° luglio 1998, sarebbero stati condotti degli scrutini al fine di verificare la convergenza di ciascuno Stato verso l’osservanza dei parametri di Maastricht. Il 31 dicembre 1991 cinque Stati non rispettavano il vincolo debito/PIL: il Belgio (127,1%), l’Italia (98%), l’Irlanda (94,4%), la Grecia (82,2%) e l’Olanda (73,7%). In occasione della prima valutazione, anche l’Austria aveva sforato il limite (60,5% – + 4,4%) e la Spagna vi si era pericolosamente avvicinata (57,2% – +13,8%). In merito all’indebitamento, il 31 dicembre 1991 a non rispettare il vincolo erano l’Italia (11,4%), la Grecia (11%), il Portogallo ed il Belgio (7,2%). Il 31 dicembre 1993 risultavano al di fuori del parametro anche la Francia (5,9% – + 3,5 punti) e l’Austria (4,2% – +1,3 punti). In luogo del primo scrutinio, la stabilità risultava nel complesso osservata mentre la solidità delle finanze pubbliche elusa. Infatti, nonostante la situazione in termini d’indebitamento potesse giudicarsi accettabile, il rapporto debito/PIL aveva subito un grave peggioramento. Tuttavia, per tutti i Paesi si è giunti ad una valutazione positiva ammettendo implicitamente l’assenza di alcun limite massimo all’entità del debito pubblico, consentendo un’interpretazione distorta dell’art. 104 C che si sarebbe poi estesa alle disposizioni applicative. Infatti, per l’indebitamento, quando il valore del 3% viene superato, si richiede una diminuzione sostanziale e continua che consenta di avvicinare il livello al limite di riferimento. Per quanto concerne il debito, invece, in caso di violazione si stabilisce la necessità di ridurlo in maniera sufficiente ed adeguata ad avvicinarlo al 60% rispetto al PIL, denotandosi la maggiore elasticità nella formulazione.
In occasione della seconda osservazione (31 dicembre 1996) il giudizio sarebbe stato più articolato ed avrebbe riguardato la sostenibilità delle finanze pubbliche, il rispetto dei normali margini di fluttuazione dello SME, la presenza o meno di un alto grado di stabilità. Quest’ultima da valutare prendendo in considerazione il tasso d’inflazione e confrontandolo con quello dei tre Paesi che presentassero i migliori risultati in materia ed infine i tassi d’interessi a lungo termine, rapportati al medesimo parametro. Il protocollo n.6 stabiliva che per gli ultimi due criteri il giudizio avrebbe riguardato l’intero anno antecedente lo scrutinio. Il tasso d’inflazione risultava eccessivo in Grecia, Spagna, Irlanda, Italia e Portogallo mentre il tasso d’interesse a lungo termine era fuori norma in Grecia (17%), Italia (12,2%), Portogallo (11,5%) e Spagna (11,3%). Le bande di oscillazione dello SME erano rispettate mentre, al 31 dicembre 1996, nove Stati avevano un rapporto deficit/ PIL superiore al 3%, ossia Grecia (7,4%), Italia (6,9%), Spagna (4,8%), Portogallo (4,5%), Francia (4,1%), Austria (3,9%), Belgio (3,8%), Finlandia (3,5%) e Germania (3,3%). Erano sette, invece, i Paesi ad eccedere nel valore di riferimento del debito, ovvero Belgio (126,9%), Italia (120,6%), Grecia (111,3%), Irlanda (72,4%), Olanda (72,1%), Austria (67,6%) e Spagna (66,7%).
Il Consiglio, su parere del Parlamento, avrebbe dovuto stabilire se la maggioranza degli Stati soddisfacesse i criteri necessari per l’adozione dell’euro ma, anche in questo caso, le condizioni non sussistevano. Ecco che quindi si faceva ricorso alla norma n.4 dell’art. 109 J, la quale fissava il 1° gennaio 1999 come data d’introduzione della moneta unica, il tutto preceduto da uno scrutinio senza appello da realizzarsi entro il 1° luglio 1998. Rispetto al 31 dicembre 1996 il vincolo sull’inflazione, riferita sempre all’anno antecedente, si rivelava non soddisfatto solo in Grecia (6,8% da 7,4%) e lo stesso discorso valeva per i tassi a lungo termine (9,9%) e per il deficit (6,6%). Le bande di oscillazione dello SME erano rispettate in tutti gli Stati mentre la situazione nel rapporto debito/ PIL era problematica. Il 31 dicembre 1997 il Belgio era al 122,2%, l’Italia al 118,1%, la Grecia al 114%, l’Olanda al 67%, la Spagna al 65,3%, l’Austria al 63,8% e l’Irlanda al 63,6%. Il 3 maggio 1998 il Consiglio, raccolte le raccomandazioni della Commissione e su parere del Parlamento Europeo, dichiarava il soddisfacimento delle condizioni per l’adozione della moneta unica da parte di Belgio, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Austria, Portogallo e Finlandia. Per la Grecia si deliberava, invece, la condizione di “Stato membro con deroga” (art. 109 K), poi cessata il 1° gennaio 2001. L’euro è diventato la vaaluta naionale elleniica il 1° gennaio 2002. Anche in questa caso, a consentire la continuazione del processo è stata l’interpretazione dell’art. 104 C, che dava preminente rilievo all’indebitamento, ponendo in seconda linea il valore relativo al rapporto debito pubblico/ PIL.
L’ingresso della Grecia nell’Unione Monetaria è stato oscurato da un avvenimento spiacevole. Nel 2001 i greci dovevano procedere ad una riduzione del debito pubblico al fine di rispettare i vincoli imposti dal Trattato di Maastricht per essere accettati nell’eurozona. Nel 2012, tuttavia, Nicholas Dunbar ed Elisa Martinuzzi hanno condotto un’inchiesta per l’agenzia Bloomberg, raccogliendo le testimonianze di Christoforos Sardelis e Spyros Papanicolaou, responsabili dell’agenzia del debito pubblico Ellenica rispettivamente dal 1999 al 2004 e dal 2005 al 2010. Nel 2001 la Grecia ha sottoscritto con Goldman Sachs un cross – currency swap. I cross – currency swaps sono contratti utilizzati per convertire il debito contratto in valuta straniera in debito sottoscritto in moneta nazionale, adoperando il tasso di cambio di mercato. In questa maniera, infatti, si è proceduto a trasformare 2,4 miliardi di debito contratto in dollari e yen in un prestito in euro, secondo un tasso di cambio fittizio, consentendo alla Grecia di preservarsi dal rischio di cambio. Secondo le regole contabili allora utilizzate dalla Commissione Europea e da Eurostat, è stato possibile nascondere tale ammontare dal debito pubblico nazionale, riducendolo del 2% circa. Goldman Sachs ha incassato da tale operazione una commissione di € 600 milioni. Per finanziare il primo swap, la Grecia ha sottoscritto con la banca d’affari un interest rate swap che caricava sul Paese un debito di € 2,8 miliardi. Esso prevedeva, per i primi tre anni, il pagamento di un tasso d’interesse molto basso (teaser rate), seguito da un flusso di pagamenti inversamente dipendente dai tassi di sconto praticati dalla Federal Reserve. La politica espansiva adottata dalla Banca Centrale Americana ha aggravato la situazione, tanto è vero che nel 2002 si è deciso di legare lo swap all’indice armonizzato dei prezzi al consumo dell’Eurozona. Tuttavia, anch’esso non ha dato risultati e nel 2005 si è provveduto a ristrutturare il debito, il quale da € 2,8 miliardi è passato a € 5,1 miliardi, con una perdita di € 2,3 miliardi per il Governo Greco.