Da colonia a (quasi) stato americano
Puerto Rico è un’isola dell’America centrale, colonia degli Stati Uniti dal 1898, quando, a conclusione della guerra ispano-americana, la Spagna fu obbligata a cederla insieme a Guam e alle Filippine. Il XX secolo iniziò sotto il regime statunitense, con i funzionari statali e lo stesso governatore nominati dal presidente degli USA. Nel 1917 una legge approvata dal Congresso americano garantì ai cittadini portoricani la nazionalità statunitense, divenendo così arruolabili nella prima guerra mondiale.
Attualmente detiene lo status di territorio “non incorporato” degli Stati Uniti, i portoricani possiedono il passaporto statunitense ma non beneficiano di diritti politici, né attivi né passivi: non possono votare il presidente e avere una rappresentanza al congresso. I suoi 3.6 milioni di abitanti pagano per finanziare la previdenza sociale e il Medicare, ma non le tasse federali. Il potere esecutivo è nelle mani del governatore liberamente eletto; un’assemblea legislativa bicamerale, pur sottoposta alle leggi del Congresso USA, gode del potere legislativo; quello giudiziario è rappresentato dal Chief Justice della Corte suprema di Puerto Rico.
Nel novembre 2012 si è tenuto un referendum in cui i portoricani hanno espresso la volontà di abbandonare il loro status attuale e diventare il 51° stato americano. La richiesta non è stata accolta dal Congresso, il quale immagina e desidera per l’isola un diverso destino.
Un paradiso fiscale
Nel corso dei decenni Puerto Rico si è trasformato lentamente in un paradiso fiscale, un territorio extra-statale, esterno, ma pur sempre statunitense e sottoposto al suo controllo giuridico e politico, un arcipelago caraibico dove i capitali possono muoversi con agilità e i milionari di prima generazione possono trasferirsi senza dover rinunciare alla loro cittadinanza americana, mantenendo diritti e sicurezze economiche.
Nel 2012 Puerto Rico ha approvato due leggi per trasformare l’isola in una “destinazione globale per gli investimenti”. La prima norma (Act 20) permette alle multinazionali che esportano servizi dall’isola di pagare unicamente il 4% di tasse.
La seconda (Act 22) ha reso l’isola l’unico territorio degli Stati Uniti in cui il reddito derivato da investimenti, interessi e dividendi non è tassato. Per avere diritto alle esenzioni previste dall’Act 22 è necessario dimostrare all’agenzia statunitense per la riscossione delle tasse (Irs) di essere residenti a Puerto Rico e di non avere “contatti stretti” (famiglia, proprietà, legami con organizzazioni politiche o religiose) sul continente. Dal 2012 sono più di 1500 gli statunitensi trasferitisi sull’isola, mentre il flusso di capitali negli anni è di difficile misurazione.
Economia e crisi del debito
Nel XIX secolo l’economia di Puerto Rico si basava sull’esportazione di zucchero, e quando il suo prezzo crollò, nel corso degli anni Trenta, l’isola cominciò ad offrire sgravi fiscali alle imprese che decidevano di localizzarsi sul suo territorio, permettendo al settore manifatturiero di prevalere su quello agricolo. Questo innescò un boom economico e di sviluppo, il quale trovò ostacoli e si bloccò negli anni Settanta, allorché il governo federale pianificò a tavolino un nuovo slancio cercando di attirare industrie farmaceutiche. Nei primi anni Duemila, una compagnia produceva annualmente cento milioni di pillole di Viagra a Barceloneta, una città sulla costa Nord dell’isola. Questi sgravi vennero interrotti nel 2006, inaugurando un cambio di politica economica che porterà gradualmente alla legislazione del 2012.
Da un decennio Puerto Rico soffre di un pesante crisi debitoria e di uno strisciante flusso migratorio in uscita, ovvero i due principali fattori della recessione che l’economia insulare sta cercando – tra interessi politici conflittuali e pressioni nocive provenienti dalla 20/22 Act Society (società che unisce gli esuli fiscali dell’isola) – di affrontare. A far precipitare il contesto economico in un quadro da emergenza umanitaria e sociale è stato l’uragano Maria abbattutosi sull’isola nel settembre 2017, i cui effetti distruttivi non sono stati ancora pienamente recuperati, con zone tuttora prive di elettricità. Nel corso del precedente anno il Congresso americano ha stanziato 16 miliardi di dollari per la ricostruzione, quando, secondo le stime del governo locale, servirebbero 96 miliardi.
Il futuro
In base al “Us Puerto Rico oversight management and economic stability act” (Promesa) oggi le finanze del paese “non incorporato” sono controllate da una commissione federale. Anche se ha rappresentato una tragedia, con quasi 3000 vittime, l’uragano ha offerto l’opportunità di riscrivere il debole bilancio e rimodulare le sue voci di spesa, nonché il piano di recupero del debito. Tuttavia, l’occasione è stata mancata: il debito continua a salire, aggirandosi intorno al 100% del Pil, e il nuovo piano di recupero proposto dalla commissione è totalmente a vantaggio dei creditori.
Nonostante tutto, la commissione ha pubblicato previsioni rosee per il futuro dell’isola, con stime tutto fuorché preoccupanti, giustificate blandamente. Puerto Rico necessita di un piano economico e di ristrutturazione del debito profondo, che inverta la rotta rispetto al passato. Ma non sembra esserci la volontà politica.