Il sistema eurozona oggi è dominato da un modello export-led, le cui implicazioni possono anche essere pericolose. Secondo lo studio di George Saravelos, di Deutsche Bank, si tratta, per come è impostato, di una politica insostenibile nel medio-lungo periodo per una serie di ragioni. Innanzitutto, perché si nutre della carenza di domanda interna e dell’alto tasso di disoccupazione causato dalla crisi europea. In secondo luogo, è necessario che vi siano altri Paesi disposti a registrare ampi deficit delle partite correnti. Il 2016 si è chiuso con un avanzo per l’eurozona di €359,4 miliardi, pari a circa il 3,3% del PIL. Ora sono perlopiù gli USA a svolgere tale ruolo, ma non è realistico aspettarsi che essi continueranno per sempre ad assorbire i surplus di Cina ed Europa. Infine, tale processo rischia di avere effetti destabilizzanti sull’economia globale e di deprimere ulteriormente la domanda europea e mondiale. Così come afferma un rapporto del Dipartimento del Tesoro statunitense del 2013, quindi, la soluzione consiste nel puntare di più sulla domanda interna, soprattutto nei Paesi con elevati surplus.
“Tra il 2000 e il 2007 le banche dei paesi core, soprattutto Francia e Germania, hanno accumulato un’enorme esposizione nei confronti delle banche dei paesi della periferia – e nel caso della Grecia anche nei confronti del governo -, permettendo così ai consumatori di questi Paesi di continuare a importare prodotti tedeschi. E dividendo progressivamente il continente in paesi creditori e paesi debitori. È quello che gli americani chiamano vendor financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto”.
Questa è stata la strategia adottata nella prima fase dell’integrazione europea, del tutto modificata con l’avvento della crisi finanziaria. I Paesi della periferia sono stati infatti costretti ad adottare misure di austerità, con derivante compressione della domanda interna e delle importazioni. Se da un lato ciò ha consentito di migliorare il saldo delle partite correnti, dall’altro ha comportato un netto aumento della disoccupazione. Nel 2007 la disoccupazione all’interno dell’eurozona era del 7,5%, mentre al termine del 2016 era al 10% ed anche nell’Europa a 28 si è passati dal 7,2% all’8,6%. A risentirne in modo particolare sono state la Grecia e la Spagna, partite rispettivamente con l’8,4% e l’8,2% ed attestatesi, a fine 2015, al 23,6% ed al 19,6% di disoccupazione. Al rigore fiscale si sono aggiunte opere di privatizzazione e di liberalizzazione del mercato del lavoro con lo scopo di agevolare il pagamento dei debiti contratti. A tal proposito è sufficiente esaminare il saldo TARGET 2. Il sistema TARGET 2 (dove TARGET sta per Trans-European Automated Real-time Gross settlement Express Transfer system) è stato introdotto nel novembre 2007, in sostituzione del sistema TARGET e di altre stanze di compensazione (clearing house). Esso costituisce il sistema di compensazione dei pagamenti tra le banche commerciali e le Banche Centrali dei Paesi dell’eurozona. Quando una banca tedesca richiede ad un banca greca di rimborsarle un credito interbancario, essa vuole essere accreditata presso la Bundesbank. Di conseguenza, la banca greca chiede alla Banca Centrale Greca di addebitare il suo conto e di accreditare la Buba. In questa maniera, il rapporto credito-debito tra le banche commerciali si estingue, ma permane lo squilibrio tra le Banche Centrali Nazionali, visibile nel saldo TARGET 2. Tuttavia, con l’entrata nell’euro, le Banche Centrali Nazionali non possono più emettere la propria valuta ed in caso di carenza di denaro, dovranno richiederlo alle altre Banche Centrali. Ciò è quanto si è verificato a partire dal 2011, con una traslazione dei crediti dalle banche locali core alle Banche Centrali core e dei debiti dalle banche commerciali periferiche alle Banche Centrali periferiche. Ecco che mentre l’esposizione del sistema bancario tedesco nei confronti delle istituzioni del sud Europa è passato dagli oltre € 900 miliardi del 2008 a circa € 380 miliardi, l’attivo della Deutsche ad inizio del 2016 era di € 580 miliardi. A dicembre 2017 era pari a €906,9 miliardi.
In passato, l’affidabilità economica della Germania ha attirato capitali dall’estero sottoscritti in Bund a tassi vicini allo zero, in parte reinvestiti nei titoli di Stato di Grecia, Spagna, Italia e Portogallo dove i rendimenti erano più elevati. Ciò ha consentito ai tedeschi, a discapito dei Paesi del Sud, di introitare grazie allo spread oltre € 40 miliardi tra il 2010 e l’inizio del 2014. Inoltre, tra il 2009 e la metà del 2013, secondo l’Istituto di ricerca tedesco IFW, la Germania ha risparmiato € 80 miliardi grazie al calo degli interessi sul debito pubblico.