29 maggio 1933; la Standard Oil of California firmava un accordo di concessione con il governo saudita per prospezioni petrolifere sul suolo saudita. Per i primi quattro anni la ricerca si rivelò infruttuosa, tanto che la Texas Oil Company acquisì il 50% della concessione. Questo fino al 1938 quando a Dhahran, futura sede della società, venne scoperto il pozzo “Dammam number 7”, il che porterà la società a cambiare nome in Arabian American Oil Company (ARAMCO). Dopo vari scambi di partecipazioni azionarie tra i vari competitors americani, nel 1980 il governo saudita è riuscito ad ottenere il pieno controllo della maggior risorsa nazionale. Questo garantirà al paese una riduzione del debito pubblico al livello record dell’1,58% (debito come % del Pil) nel 2014.
Ma non è tutto oro quel che luccica. La concorrenza americana della “shale oil” e la costante riduzione della domanda mondiale di petrolio ha reso molto volatile il mercato del greggio. Dalla fascia di 80-110$ al barile ci si è assestati a quella di 30-60 $ (un calo maggiore del 50% in meno di 3 anni). Una “volatilità voluta e sperata” dall’ Opec, il cartello che controlla circa il 78% delle riserve petrolifere mondiali, dove l’Arabia Saudita ha un ruolo dominante grazie alla produzione di circa 12 milioni di barili al giorno (nel 2016).
La Saudi Arabian Oil Company, principale asset del regno, rappresenta il trait d’union tra il paese attuale e il “Vision 2030”, il programma che punta a modificare il volto dell’Arabia Saudita. Lo strumento principale del programma è il Saudi Arabia’s Public Investment Fund (PIF), che dovrà acquisire Aramco e vendere circa il 5% del monopolio statale con un IPO nel 2018, al massimo nei primi mesi del 2019. Il fondo vanta già asset intorno ai 160 miliardi $ e si prepara a riceverne altri 27 miliardi $ dalle casse statali. Fiore all’occhiello è la partecipazione di 3.5 miliardi $ in Uber (insieme ad altri 50 miliardi investiti all’estero nel settore tecnologico). Diversificazione e redditività, queste sono le parole chiave della politica economica saudita. Al momento, tuttavia, il fondo è troppo concentrato in settori rischiosi ad alto ritorno, dato che le riserve dello stato sono in netta diminuzione e vi è la necessità di risultati immediati. Il modello è quello dei fondi sovrani di Kuwait e Emirati Arabi Uniti, i quali potrebbero essere sovrastati per grandezza dal PIF saudita.
Ma quanto vale Saudi Aramco? Domanda da un milione di dollari; anzi da 2 bilioni di dollari. Si stima oggi un valore maggiore della somma di quello di Apple (730 miliardi$), Google (575 miliardi$) e Microsoft (500 miliardi$), il che pare classificarla come la più grande società quotata a livello mondiale.
Quali fattori hanno portato a questa valutazione? Secondo Tarek Fadlallah, CEO di Nomura Asset Management Middle East, è il risultato dei 261 miliardi di barili (custoditi principalmente tra Ghawar e Safaniya) moltiplicati per 8$, un benchmark utilizzato per valutare le riserve. In realtà, questo metodo si rivela molto aleatorio, e molto lontano da valutazioni borsistiche reali, dato che, applicandolo anche in altri casi, la russa Rosneft avrebbe una capitalizzazione 4 volte maggiore dell’attuale (da 64$ miliardi a 272$ miliardi), mentre Exxon Mobil subirebbe una perdita di valore del 53%. Il mercato ha chiaramente altri criteri per valutare la capacità di fare business e produrre utile. Wood Mackenzie Ltd, autorevole gruppo di consulenza energetica, ha valutato un capitale intorno ai 400 miliardi (5 volte meno), utilizzando il metodo del “discounted cash flow”, che ha evidenziato variazioni significative dovute alla sensibilità alle politiche fiscali del regno. Infatti le royalties del 20% e un tax income (imposta sul reddito) dell’85% lasciano pesanti dubbi sulla capacità di remunerare il capitale proprio. È molto probabile che il regno provveda alla riduzione della pressione fiscale in vista della quotazione, come più volte dichiarato, il che potrebbe portare a qualche problema. Bisogna considerare che Saudi Aramco non ha mai pubblicato un suo bilancio e che gli investitori richiedono sconti per il rischio politico. Difatti, pur essendo l’Arabia Saudita relativamente stabile, è piuttosto il contesto geopolitico a guidare le decisioni della governance piuttosto che gli interessi di una minoranza di azionisti. Tuttavia è possibile stimare un valore target intorno al biliardo di dollari.
Un’altra questione spinosa riguarda l’IPO stessa. Sulla scia del successo Snapchat e, in particolar modo, di Alibaba (21,8 miliardi di dollari nel 2014, la più grossa IPO della storia), la strada sembra spianata per assorbire i 20 – 100 miliardi (5% dell’Aramco a seconda delle varie valutazioni) e trasformare l’economia saudita aprendo le porte a maggiore capitale estero. Considerando però che il Tadawul, la borsa del Regno, ha una capitalizzazione di circa 440$ miliardi (la più grande del Medio Oriente) e che la partecipazione estera è minima (4%) risulta impensabile collocare un IPO di tali dimensioni esclusivamente sul mercato locale. Ciò comporta la necessità di trovare un partner internazionale, o probabilmente dividerla su più mercati. In pole position, oltre al NYSE e al LSE, troviamo Tokyo, che riceverà il principe saudita a metà marzo, Singapore e Hong Kong. In ogni caso si prospettano laute commissioni per gli advisor JPMorgan Chase & Co., Moelis & Co. (importante boutique finanziaria in forte crescita) e il consulente indipendente Michael Klein. La condizione basilare per mantenere un’ottima valutazione è il mantenimento del valore del “crude”; il petrolio, infatti, garantirà ancora un terzo della domanda mondiale di energia nei prossimi vent’anni. Da tenere sicuramente in considerazione anche l’effetto sui prestiti interbancari. Il Saudi Interbank Offered Rate è stato influenzato pesantemente dalla futura liquidità post-IPO; la pioggia di cash attesa ha determinato un’inversione del trend nel costo del denaro; il tasso a 3 mesi è sceso dai massimi di 2,4% ad appena sotto i 190 punti base.
Ma il lavoro del Ceo Amin H. Nasser ha recentemente permesso di gettare importanti basi per lo sviluppo di Aramco nel mercato asiatico. Freschi dell’accordo da 6 miliardi$ con l’indonesia PT Pertamina per un progetto nel settore petrolchimico, i dirigenti dell’Aramco hanno investito altri 7 miliardi$ sulla controllata del governo malese Petroliam Nasional Bhd per sviluppare una nuova raffineria. Khalid A. Al-Falih, ministro dell’energia del Regno e chairman dell’Aramco, ha dichiarato che queste mosse rafforzeranno l’ampiezza del portafoglio del gigante saudita (che verrà sicuramente valutata dagli investitori). La compagnia sta lottando per conquistare maggiore market share a livello mondiale, tenendo in conto l’atteggiamento minaccioso dello shale americano e del petrolio russo.
In un contesto socio-politico così delicato come quello medio-orientale, la quotazione di Saudi Aramco è l’icona della fine dell’”oasi felice” dei prezzi calmierati, dei lavori facili, del clientelismo e dell’assenza di tasse per i 29 milioni di abitanti. Il nuovo piano di sviluppo promette “reali” posti di lavoro (dal turismo all’high tech) e il pieno coinvolgimento femminile nell’economia, come dimostrato dal nuovo incarico di Sarah al Suhaimi, prima donna a guidare la Borsa Di Riyadh (nell’unico paese al mondo dove alle donne non è permesso guidare!). Una fase rivoluzionaria, audace e sicuramente innovativa per il più grande Stato arabo dell’Asia occidentale un’oasi nel deserto nel futuro con la speranza, però, che non si tratti di un miraggio.