Il Capital Asset Pricing Model (’60) e l’Arbitrage Pricing Theory sono due modelli di equilibrio dei mercati finanziari che permettono di quantificare il rendimento atteso di un singolo titolo.
CAPM
Il CAPM (William F. Sharpe, John Lintner) è sicuramente il modello più famoso e più utilizzato per via della sua semplicità, ma anche per la capacità di ricondurre il rendimento di un titolo ad un solo fattore di rischio, infatti il CAPM stabilisce una relazione lineare tra il rendimento di un titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore detto beta (β).
La formula del CAPM è la seguente:
E(Ra)=β(Rm-Rf)+Rf
Dove:
– Rf è il rendimento privo di rischio, in genere è il tasso dei fondi federali o il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni.
– Rm è il rendimento del mercato
– Il beta (β) misura la sensitività del titolo rispetto al mercato, ad esempio, se un portafoglio ha un beta di 1,25 in relazione allo Standard & Poor’s 500 Index (S & P 500), è teoricamente più volatile del 25% dell’indice S & P 500. Pertanto, se l’indice sale del 10%, il portafoglio sale del 12,5%. Se l’indice scende del 10%, il portafoglio diminuisce del 12,5%.
– E(Ra) è il rendimento atteso del titolo preso in considerazione
ll CAPM ipotizza che il profilo rischio-rendimento atteso di un portafoglio possa essere ottimizzato, determinando un portafoglio ottimale, che presenti il minimo livello di rischio possibile per il proprio rendimento atteso. La soluzione di un tale problema di ottimizzazione porta alla definizione della frontiera efficiente dei portafogli (Markowitz); il portafoglio ottimale selezionato dal CAPM è il portafoglio di tangenza tra la Capital Market Line (Tobin) e la frontiera stessa. In base alle curve di indifferenza degli investitori e quindi in base alla loro propensione al rischio, ogni investitore può decidere quanta ricchezza investire nel portafoglio di mercato e quanta ricchezza investire nel titolo risk free. Se ad esempio sono molto avverso al rischio deciderò di investire il 90% in risk free e il resto nel portafoglio di mercato.
Ora, il portafoglio di mercato dovrebbe, almeno in linea teorica, ricomprendere tutte le attività finanziarie che possono essere oggetto di scambio sul mercato: dunque non solo titoli azioni/obbligazionari, ma anche entità meno facilmente quantificabili quali il capitale umano, la bravura del managment, gli incentivi e i disincentivi aziendali ecc. I test standard superano la difficoltà di reperire dati sul portafoglio di mercato ricorrendo a sue proxy (ossia a indici il cui rendimento dovrebbe essere fortemente legato a quello del portafoglio di mercato), quali ampi indici dei mercati finanziari (ad es. negli USA, lo S&P500, in Italia il FTSEMIB).
Tipicamente le critiche del CAPM si concentrano sulle sue assunzioni, come l’assenza di tasse, l’inflazione, i costi di transazione, la capacità di prendere a prestito quantità infinite a un tasso privo di rischio, ecc. Tutti questi punti sono rilevanti, ma manca l’unico grande difetto del modello CAPM, il portafoglio di mercato.
Il dibattito intorno al CAPM iniziò nel 1977 a seguito della critica di R. Roll: “Il portafoglio di mercato teorico dovrebbe includere ogni tipo di investimento, e non solo quelli azionari. Di questo portafoglio non esiste una proxy”. In pratica secondo Roll il portafoglio di mercato non è osservabile.
Alcuni ricercatori scrissero addirittura un saggio dal nome “ The CAPM is dead”, per via del fatto che in alcuni periodi il modello CAPM non funzionava empiricamente, infatti i rendimenti di alcuni titoli non erano correlati al Beta.
A causa di queste critiche si è pensato di ricorrere a modelli alternativi, tra i più importanti troviamo l’APT.
APT
L’APT è un modello più generale del CAPM, originariamente proposto da Stephen Ross in uno storico contributo del 1976. L’APT funge da alternativa al CAPM e utilizza meno ipotesi e potrebbe essere più difficile da attuare rispetto al CAPM. Ross ha sviluppato l’APT basandosi sul fatto che i prezzi dei titoli sono guidati da molteplici fattori, che potrebbero essere raggruppati in fattori macroeconomici o specifici dell’azienda, infatti è un modello multifattoriale. L’APT è una formula di equilibrio e si basa sulla legge dell’unico prezzo: due oggetti identici non possono avere prezzi diversi.
La formula dell’APT è la seguente:
Ra=λ0+λ1β1+λ2β2+…+λnβn+εi
Dove:
– Ra è il rendimento effettivo del titolo azionario
– λi sono i rendimenti che remunerano l’esposizione al fattore di rischio
– βi sono i fattori di rischio sistematico
– εi è il fattore di rischio specifico del titolo
Nel CAPM il fattore rilevante è noto (excess return), nell’APT l’insieme di fattori rilevanti non è specificato in teoria.
Verificare l’APT per i motivi sopracitati non è assolutamente semplice, uno dei metodi empirici per capire se i fattori che stiamo utilizzando sono corretti è l’analisi fattoriale che determina l’insieme dei fattori e la sensitivity che minimizza la covarianza trai residui. Ripetendo questo processo sulla base di diverse ipotesi sul numero di fattori rilevanti, si ottengono risultati per due, tre,…, j fattori.
Il problema dell’APT è che non sappiamo però quali fattori dovremmo utilizzare e non sappiamo neanche il segno e la dimensione, sappiamo solo che debbano essere significativamente diversi da 0. Sarebbe più semplice se avessimo una teoria circa le variabili che influenzano il rendimento dei titoli.
Secondo Sharpe il rendimento dei titoli di equilibrio è influenzato da:
– Beta del titolo rispetto all’indice S&P
– Dividend yield
– Capitalizzazione (dimensione)
– Il beta rispetto ad un indice obbligazionario di lungo periodo
– Il valore passato dell’alfa (intercetta)
– 8 variabili settoriali (industriale, energetico, finanziario, trasporti ecc)
Sia il CAPM che l’APT fanno supposizioni relativamente irrealistiche in quanto le attività sono liberamente disponibili, non vi sono costi sostenuti nell’acquisizione di attività e tutti gli investitori tendono a pensare allo stesso modo e giungono alle stesse conclusioni. Ciò sembra intuitivamente contraddittorio, in quanto è probabile che gli investitori di maggior successo siano quelli che sono in grado di individuare un potenziale che è rimasto inosservato dal mercato nel suo insieme. In effetti, quando tutti gli investitori pensano allo stesso modo, è possibile creare una “bolla” che gonfia il prezzo delle attività e minimizza i rischi inerenti al bene (Blanchard & Watson, 1982). In questa circostanza, è probabile che la valutazione del rischio di un bene basato sull’umore del mercato sia molto più rischiosa di quanto possa essere previsto dal CAPM o dall’APT. In teoria, quindi, si potrebbe sostenere che l’utilizzo di un’analisi CAPM o APT potrebbe aumentare la propensione a far emergere le “bolle”, in quanto utilizzano previsioni statiche di comportamento da parte degli investitori. Comunque l’analisi APT dovrebbe avere un impatto meno forte nella creazione di eventuali bolle rispetto al CAPM, a causa della sua complessità e della discrezionalità nella scelta dei fattori di rischio e dei relativi pesi.
In conclusione, sono due modelli con assunzioni forti e caratteristiche particolari, quali usare dipende dalle competenze e dall’oggetto di valutazione dell’individuo, in ogni caso sono due modelli fondamentali nell’economia neo classica, e sicuramente fungeranno da base per la costruzione di un modello futuro che magari riuscirà a incorporare i benefici di entrambi.