L’Italia è al 51° posto su 54 Paesi analizzati (che comprendono però il 67% della popolazione sul pianeta e l’86% del PIL mondiale) nella classifica 2018 contenuta nel Gem-Global Entrepreneurship Monitor, 19° rapporto del consorzio internazionale coordinato da Babson College (la Scuola di imprenditorialità del Massachusetts) e London Business School per fotografare lo spirito imprenditoriale e innovativo di economie emerse ed emergenti, nonché i driver socio-economici sottostanti. Non sorprende che il nostro Paese occupi la coda delle graduatorie mondiali quando si parla di facilità e predisposizione a fare impresa; sorprende di più che ce la caviamo meglio del Giappone (all’ultimo posto) e che siano Arabia Saudita, Libano e Indonesia le terre con il più alto spirito imprenditoriale. Esso è rappresentato da un indice sintetico, da -1 a +1, che incrocia consapevolezza imprenditoriale, percezione delle opportunità locali e fiducia nell’efficacia della propria attività. Va comunque notato che restano gli USA la culla delle grandi opportunità in termini di impatto occupazionale e di business.
Ma cosa distingue lo spirito imprenditoriale?
Innanzitutto, imprenditorialità è spesso sinonimo di rischio. Avere uno spirito imprenditoriale vuol dire assumersi la responsabilità, e quindi il rischio, delle proprie idee e delle proprie scelte, che in misura più o meno proporzionale si ripercuotono sul proprio business. Un imprenditore fa delle proprie idee la propria virtù, su cui fonda il suo modo di fare impresa e di approcciare la vita. Una vita che non ha orari, che porta elevati livelli di stress fisico ed emotivo e che non permette di organizzare il proprio percorso in un’ottica di lungo periodo, in quanto, come spesso accade, il passo successivo dipende dai risultati di quello precedente. Seppur a primo impatto questi possono sembrare lati negativi, non sempre lo sono.
Anzi, un imprenditore di successo è colui che riesce a identificare i punti critici del proprio business e del suo modo di fare impresa e a trasformarli in punti di forza; riesce ad imparare dai suoi errori capendo quali sono le mosse da fare e quali quelle da non fare, quali sono le condizioni in cui è meglio agire o in cui è meglio attendere. Ovviamente queste insicurezze e questi rischi sono a capo di una singola persona: la problematica, se di problema si può parlare, sta proprio nella rischiosità di fare l’imprenditore. «Sono sicuro che il business sia profittevole? Sono sicuro che questa idea possa portarmi un rendimento positivo? È possibile che questa mia decisione si ripercuota negativamente sul business?» Tutte queste domande hanno una risposta solamente una volta presa la decisione e messa in pratica l’idea.
Alla fine, se le azioni si rivelano profittevoli l’imprenditore arriva a guadagnare anche cifre notevoli, ben sopra la media di un dipendente nel suo stesso settore. Inoltre, un vero imprenditore è colui che non aumenta la propria ricchezza personale, ma incrementa il valore del proprio portafoglio investendo in prodotti diversificati, non solo in ottica finanziaria. Ciò che traspare è che naturalmente vale anche l’esatto contrario, cioè che nel caso in cui le azioni da lui compiute risultino errate è lui stesso a perdere.
Lo spirito da dipendente
Dall’altro lato della medaglia troviamo il lavoratore dipendente, non nell’accezione negativa del termine, ma ad indicare che il suo lavoro dipende dalle decisioni che vengono prese da altri, spesso dal proprietario della stessa azienda. I caratteri distintivi del lavoratore dipendente sono la stabilità economica, in quanto ad egli spetta ogni mese uno stipendio, più o meno commisurato alla quantità e qualità del suo lavoro, e l’omogeneità delle task a lui assegnate, che dipendono dalla mansione che ricopre (dalla quale spesso dipende la remunerazione). Altro carattere tipico è solitamente la conoscenza a priori degli orari di lavoro. Il lavoratore dipendente ha in genere degli orari ben definiti dal contratto stesso o comunque in un momento precedente al suo inizio attività, che però possono anche variare in base ai periodi stagionali di intensità, alle richieste dei superiori o a particolari avvenimenti.
Ovviamente l’unico rischio che il lavoratore dipendente sopporta è quello del fallimento della società per la quale lavora, escludendo da questa considerazione il licenziamento per giusta causa ad opera del datore di lavoro o altre forme di estinzione del contratto dovute al termine dello stesso. Tuttavia anche a tale rischio è corrisposto un premio, commisurato alla qualità del lavoro svolto e ad altri indicatori ed elargito sotto forma di promozioni, benefit o servizi integrativi; si tratta di leve che il datore di lavoro utilizza per premiare i soggetti particolarmente meritevoli, oltre che per remunerare il grado di anzianità.
Come è evidente, questa analisi non ha affatto il fine di denigrare o sopraelevare un ruolo rispetto ad un altro, ma si prefigge come unico scopo quello di illustrare i tratti distintivi delle due figure. Esse, naturalmente, non potrebbero esistere l’una senza l’altra.
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