È il 2008 quando in Svezia viene lanciata l’applicazione che da lì a pochi anni avrebbe stravolto il mercato della musica: parliamo di Spotify. Oggi la società svedese ha un fatturato stimato di circa 10,8 miliardi di dollari e 70 milioni di utenti con un abbonamento premium – che gli permettono di doppiare il secondo rivale Apple Music – ai quali si aggiungono altrettanti con la formula free. Ha completamente stravolto il mondo della musica, che fino ad allora costringeva gli utenti ad acquistare singoli brani musicali dalle diverse piattaforme (iTunes Music Store fra tutti) e ancora prima era caratterizzato dalla pirateria illegale, un tempo dominata da Napster.
Perdite operative e possibilità di monetizzazione
Nonostante questi dati facciano pensare ad una società che naviga a vele spiegate in un mare di utili, in realtà Spotify nel 2016 ha registrato una operating loss di 400 milioni. La principale causa sono gli elevati costi rappresentati dalle royalties pagate alle società discografiche, che assorbono circa il 70% dei proventi. Questa rappresenta una criticità non da poco, soprattutto all’alba della quotazione sul NYSE, per la quale Spotify deve convincere gli investitori di essere in grado di perseguire un cammino che produca utili per gli shareholders. Non resta quindi che aspettarsi che la società svedese reinventi nuovamente il settore nel quale opera, facendo leva sul peso preponderante che essa ha sulle case discografiche.
Secondo un’analisi effettuata da Redburn, società di ricerca, nel primo quarto del 2017 Spotify ha prodotto il 17% dei 5 miliardi di ricavi generati dalle società discografiche. Altre possibilità di monetizzazione vengono dalle playlist: sono circa due miliardi quelle presenti sulla piattaforma, in gran parte create dagli utenti e, sempre secondo la ricerca effettuata da Redburn, la presenza di una certa canzone in una playlist Spotify può aumentare lo streaming dal 20 al 100%. Altra canale per la generazione di proventi è lo sfruttamento dei dati che vengono raccolti, come luogo e momento di ascolto o tipo di musica; al momento vengono utilizzati gratuitamente dalle diverse case discografiche, da artisti e rivenditori di biglietti per massimizzare i risultati derivanti dalle vendite di eventi, album o ticket.
La sfida ai giganti
E infine la proposta che al momento è la più provocante: Spotify come casa discografica. Questo permetterebbe di tagliare le royalties pagate e magari aumentare la percentuale che spetta agli artisti. È chiaro che questa azione strategica richieda tempo e capacità negoziali per evitare un improvviso break-down con quelle società che ad oggi sono cruciali per l’attività della casa svedese. In questo periodo di transizione è molto probabile che tra le parti si instauri un accordo di reciproco vantaggio: nonostante la minaccia di royalties diminuite, è lecito affermare che se Spotify crescerà anche le case discografiche lo faranno. Accordi seppur non ancora pienamente soddisfacenti sono già stati raggiunti con Universal Music Group, Warner Music Group e Sony Music. Ora la preoccupazione maggiore per queste ultime è proprio quella di aver creato un potenziale competitor che potrebbe non solo minare l’oligopolio nel quale operano, ma addirittura sbarazzarsi di loro grazie alla presenza lungo tutta la filiera.
La direct public offer
Il fatto che Spotify sia una società da prendere davvero sul serio si intuisce anche dalla decisione di quotarsi nel mercato di capitali non tramite la tradizionale IPO ma con un DPO (direct public offer). Decisione che comporterebbe il taglio dell’intermediazione delle banche d’investimento semplicemente convertendo le attuali partecipazioni in un formato scambiabile sul mercato. Secondo i dati forniti dalla rivista The Economist, le IPO stanno divenendo con il tempo più rare dato che nel nuovo millennio si aggirano intorno alle 100 l’anno, rispetto alle circa 300 annue degli ultimi due decenni del secolo scorso. Questi dati sono testimoniati ad esempio dal fatto che Uber e Airbnb, i due maggiori “unicorni” americani, hanno deciso di raccogliere capitali tramite i canali privati.
Secondo il Sole 24 Ore «un listing diretto evita le commissioni di sottoscrizione e le restrizioni sulle vendite di azioni da parte dei proprietari attuali. Con una DPO non ci sarebbe alcun road show, non ci sarebbe l’emissione di nuovi titoli, nessuna banca di investimento verrebbe coinvolta e non ci sarebbero underwriter né periodi di lock-up. Ciò permetterebbe a Spotify di quotarsi spendendo poco e i suoi investitori esistenti non vedrebbero diluire la loro partecipazione. Sarebbe il primo grande gruppo a quotarsi attraverso una DPO, fino ad ora scelta da aziende piccole attive soprattutto nel settore biotech».