Il 17 febbraio del 1992 l’arresto di un dirigente d’azienda, Mario Chiesa, uno dei maggiori esponenti del Partito Socialista Italiano (PSI), diede inizio a uno dei periodi più cupi e burrascosi della storia giudiziaria della Repubblica, la cosiddetta Tangentopoli.
Tutto iniziò quando Chiesa, presidente della casa di cura Pio Alberigo Trivulzio, venne arrestato su mandato dell’allora magistrato Antonio Di Pietro poiché colto in flagrante durante la riscossione di una tangente del valore di 7 milioni di lire. Fu così che l’inchiesta ebbe inizio, propagandosi subito a macchia d’olio su tutta la politica e l’imprenditoria milanese.
Per placare l’opinione pubblica e cercare una via di fuga, l’allora segretario del PSI Bettino Craxi descrisse Chiesa come un «mariuolo isolato», dichiarandosi estraneo ai fatti. A questo punto, più volte interrogato, Chiesa si rese conto di essere da solo a combattere la battaglia e decise di confessare tutta la ragnatela di tangenti che era stata costruita a Milano nel corso degli anni: accordi tra politici e imprenditori avevano creato una vera e propria tassa per l’assegnazione della stragrande maggioranza degli appalti milanesi, tramite cui i privati riuscivano ad ottenere commesse ad elevati profitti, ed i politici potevano finanziare i loro partiti.
Così le indagini, iniziate nel capoluogo lombardo, si estesero confessione dopo confessione anche in altre città, arrivando fino a Roma. Ulteriore colpo di scena avvenne il 2 settembre dello stesso 1992, quando il socialista Sergio Moroni si tolse la vita, lasciando una lettera nella quale si dichiarava colpevole dei crimini contestatigli ma accusava il sistema di finanziamento dei partiti come unica causa delle sue azioni.
Nell’autunno dello stesso anno, le elezioni politiche furono l’espressione del sentimento che si stava diffondendo: astensione e indifferenza segnarono infatti la più grande crisi dei partiti politici dall’inizio della Repubblica.
Lo scandalo Enimont
Scoccata la scintilla, la fiamma cominciò ad ardere. Il protagonista della vicenda fu senza dubbio il magistrato Antonio Di Pietro, che offrì all’opinione pubblica il panorama della corruzione che dilagava in tutta Italia. Politici e imprenditori furono travolti da una valanga di avvisi di garanzia e neanche i ministri in carica furono risparmiati, provocando una quantità di dimissioni mai registrata prima.
Nel marzo del 1993 un ulteriore colpo di scena scosse la situazione, quando fu reso pubblico uno scandalo che riguardava l’ENI. Gabriele Cagliari, allora presidente della società, venne sottoposto a carcerazione preventiva e dopo quattro mesi si tolse la vita nel bagno della sua cella. Appena tre giorni dopo toccò a Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, che decise di suicidarsi con un colpo di pistola. L’accusa a loro carico era di aver versato e incassato, insieme ad altri esponenti politici e personalità elevate dei due gruppi, una maxi-tangente del valore di circa 150 miliardi di lire per favorire la fusione tra ENI e Montedison attraverso l’intermediazione della controllante di quest’ultima, il gruppo Ferruzzi, che vedeva come maggiore esponente Sergio Cusani.
Il processo si chiuse nel giugno del 1998 con la sentenza in Cassazione che condannò 12 persone per un totale di circa 20 anni di carcere.
L’ascesa di Berlusconi e la fine dell’inchiesta
Il 1994 fu l’anno dell’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, che vinse le elezioni e si insediò in Parlamento. Poco dopo la vittoria, lo stesso Berlusconi propose a Di Pietro e ad uno dei suoi collaboratori di entrare all’interno della squadra di governo, ricevendo però una risposta negativa (negherà poi di aver fatto loro tale offerta).
Fu in questa fase che Craxi si vide alle strette, con più di un’inchiesta a suo carico ed una probabile condanna in uscita: a questo punto, poco prima del ritiro del suo passaporto per pericolo di fuga, si rifugiò ad Hammamet, in Tunisia, dove passò gli ultimi anni della sua vita.
Ultima svolta del processo si ebbe nel luglio del 1994, quando il Governo emanò un decreto-legge, il cosiddetto Decreto Biondi (dal nome dell’allora Ministro della Giustizia Alfredo Biondi), tramite il quale si favorivano gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. Il decreto fu approvato all’unanimità e diventò legge il giorno seguente.
Essa segnò di fatto la fine del processo, in quanto l’esodo fuori dal carcere dei politici e degli imprenditori accusati di corruzione portò all’indebolimento delle figure dei magistrati a cui venne affidata l’inchiesta, nonché all’accanimento dei politici verso i magistrati stessi, accusati dai primi di diffamazione e di omissione d’atti d’ufficio.
Il costo di Tangentopoli
Nel 1992 l’economista Mario Deaglio calcolò il costo dell’inchiesta sui conti pubblici, sottolineando come il ricorso alle tangenti generi ripercussioni rilevanti sulle opere pubbliche, aumentando di due, tre, quattro o più volte il costo delle stesse se confrontate con quelle di altri paesi. Di seguito alcuni dati:
- 10.000 miliardi di lire annui di costi per i cittadini;
- Un indebitamento pubblico compreso tra i 150.000 ed i 200.000 miliardi;
- Una cifra compresa tra i 15.000 e i 25.000 miliardi come interessi annui sul debito.
Come esempio dell’incremento dei costi sulle opere pubbliche, si possono citare i seguenti casi:
- Il costo per km della linea M3 della metropolitana di Milano è stato pari a 192 miliardi, contro i 45 della metropolitana di Amburgo;
- I lavori di ampliamento dello stadio Giuseppe Meazza hanno superato i 180 miliardi, contro i 45 miliardi dello stadio Olimpico di Barcellona.