La Corea del Sud (ufficialmente Repubblica di Corea) si trova tra due fuochi, uno relativo alla politica interna ed uno internazionale. La destituzione della Presidente Park Geun-Hye, decisa dalla Corte costituzionale sudcoreana il 10 marzo 2017, ha messo in luce il fragile sistema di potere da lei costruito su corruzione e favoritismi. L’altro nodo da sciogliere per il Paese è il suo vicino settentrionale, la Corea del Nord. Negli ultimi mesi Pyongyang ha alimentato pericolosamente la tensione nella regione, dopo aver effettuato vari test missilistici. Washington, per bocca del Presidente Donald J. Trump, ha minacciato azioni di forza contro il regime nordcoreano. Nonostante le minacce da Nord, la Corea del Sud si avvicina alle elezioni presidenziali, che si svolgeranno il 9 maggio del 2017 e che saranno decisive per il Paese e per la sua economia. Nonostante sia una delle economie più importanti dell’Asia orientale, dunque, Seoul rimane sotto la lente d’ingrandimento.
L’economia sudcoreana: un sistema altalenante e all’avanguardia
Quella di Seoul è una delle principali economie della regione asiatica e del panorama mondiale. Attualmente, nella regione dell’Asia orientale, è seconda solamente alla Cina (la quale viaggia a ritmi del tutto unici) e davanti al Giappone. Dopo la Guerra di Corea (1950-1953), la ricostruzione dell’apparato economico venne completata grazie al sostegno statunitense e, in poco tempo, da paese agricolo raggiunse livelli di crescita straordinari, trasformandosi in un paese ipertecnologico, leader nella produzione di semiconduttori e innovatore mondiale nell’elettronica di consumo. La scalata economico-finanziaria si arenò, dopo una crescita costante nella prima metà degli anni Novanta, con lo scoppio della crisi economica asiatica del 1997-1998. Complice la bancarotta di alcuni dei principali gruppi industriali del Paese, un massiccio ricorso a prestiti esteri e un pericoloso rapporto tra debito e capitale a rischio, Seoul, per evitare il tracollo, decise di chiedere aiuto al Fmi (Fondo Monetario Internazionale), che erogò un prestito di 57 miliardi di dollari. Con una serie di misure (riforma del mercato del lavoro e provvedimenti per attrarre investimenti stranieri), il governo sudcoreano fermò la crisi e, nei primi quattro mesi del 1999, il Pil sudcoreano crebbe del 5,4%, sostenuto in parte dalla pressione deflazionistica sulla valuta (il Won sudcoreano) . Lo sviluppo e la deflazione sulla valuta spinsero il tasso di crescita annuale fino al 10,5%; in breve tempo il prestito dell’Fmi venne estinto.
La recessione globale del 2008 ha fatto entrare l’economia di Seoul in una spirale negativa che ha assorbito nel lungo periodo l’esportazione di automobili e di semiconduttori, pilastri dell’apparato economico del Paese. Nel 2010, la Corea del Sud vede una nuova ripresa economica che si attesta al 6,1%, sostenuta dagli investimenti nel settore industriale (aumentati del 24,2% nel comparto automobilistico e tecnologico), dalle esportazioni (nel primo trimestre del 2010 aumentate del 36,2%) e dalla forte domanda interna. Nel 2011 il boom si ferma, con la crescita che si attesta al 3,7%.
L’economia sudcoreana, nonostante sia all’avanguardia, ha quattro grossi difetti strutturali. I primi due sono l’inflazione e la fluttuazione della valuta sudcoreana: causata da politiche creditizie troppo permissive, l’inflazione ha portato ad un ribasso dei consumi che ha generato un forte aumento dei prezzi. Altro ostacolo alla piena crescita è la fluttuazione della valuta: l’indebolimento del Dollaro e il successivo rafforzamento del Won sudcoreano hanno portato ad una erosione delle esportazioni. Inoltre le grandi multinazionali, colpite dalla crisi del 2008, hanno diminuito la loro presenza nelle economie di alto livello e hanno effettuato incursioni in quelle emergenti. Terzo difetto strutturale è quello dei grandi conglomerati industriali sudcoreani (Samsung, LG e Hyundai), organizzati come veri e propri feudi aziendali, definiti, nell’ambiente sudcoreano, Chaebŏl. Il Paese, tra il 2015 il 2016, ha affrontato una congiuntura negativa sulle esportazioni, su un forte indebitamento delle famiglie (1.000 miliardi di dollari a fine 2015) e sulla disoccupazione giovanile, che continua ad aumentare. Dopo mesi in cui si sono registrati forti cali delle esportazioni (-13,8% a dicembre 2015), nell’agosto del 2016 si sono visti segni di ripresa delle vendite verso l’estero (+2,6%). Seoul, per diventare un’economia di livello globale, deve risolvere la sua dipendenza nei confronti dell’export, del prezzo del petrolio e del rallentamento dell’economia cinese, direzione principale delle sue esportazioni.
Politica energetica
Seoul dispone di modeste risorse energetiche interne ed è uno dei principali importatori di energia al mondo (87% del totale). La maggiore fonte di energia è il petrolio; il Paese è il quinto importatore di greggio e nono consumatore a livello mondiale (nel 2013 il consumo è giunto a 2,2 milioni di barili al giorno). Il grosso del petrolio importato giunge dall’Arabia Saudita e dal Golfo Persico. La forte dipendenza dal greggio ha obbligato il governo di Seoul a diversificare le forniture, adottando una strategia sia di breve sia di lungo termine. Da una parte ha creato una riserva strategica, sufficiente per circa 90 giorni, sotto la gestione dell’ente nazionale per il petrolio, la Knoc(Korean National Oil Corporation). Questa verrebbe utilizzata in caso di interruzione improvvisa delle forniture. L’altra strategia è l’esplorazione di possibili siti per l’approvvigionamento energetico. La stessa Knok, insieme ad alcune società private, ha iniziato a sondare il fondale marino nei pressi delle coste sudcoreane, ancora largamente inesplorato, e partecipa ad alcuni progetti pilota in vaste aeree del pianeta. Nonostante siano assenti i giacimenti, in Corea del Sud sono presenti i più grandi e avanzati impianti per la raffinazione petrolifera; ciò rende il Paese la sesta potenza mondiale per la raffinazione del greggio. Nei sei impianti vengono lavorati quasi 3,1 milioni di barili al giorno.
Oltre al petrolio la Corea del Sud consuma gas ed energia nucleare nel settore dell’elettricità e in quello industriale. Seoul importa enormi quantità di gas naturale liquefatto da Qatar e di carbone dall’Indonesia. La forte richiesta di energia elettrica viene soddisfatta da un mix di energia termica, nucleare e idroelettrica. Per ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili il governo, dal 2008, sta favorendo gli investimenti sulle fonti di energia rinnovabile; parallelamente ha aumentato la produzione di energia nucleare, nonostante l’incidente del 2011 della vicina centrale nucleare nipponica di Fukushima. Durante la conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici (Cop21) svoltasi nel dicembre del 2015, la Corea del Sud si è impegnata a diminuire le emissioni del 37% entro il 2030.
CHAEBŎL: i feudi aziendali e industriali sudcoreani
Nell’apparato industriale sono presenti i Chaebŏl, veri e propri “feudi aziendali” dei grandi colossi sudcoreani. I pochi nomi delle aziende, raggruppati nei famosi marchi Samsung, Hyundai e LG, attuano un regime oligopolistico nel mercato interno delle automobili, degli elettrodomestici, dell’edilizia e della raffinazione del petrolio, nonché della cultura e dei media. Se si analizza l’economia sudcoreana, dipendente dall’esportazione verso i mercati europei, asiatici e Usa, si comprende come la concentrazione economica sotto il controllo dei Chaebŏl sia inevitabile. Molti analisti definiscono l’economia di mercato sudcoreana “nazionalistica” . Il primo ad affermare ciò è stato nel 2015 Lee Younghoon sulla rivista “Sistema dell’economia di mercato coreana”, legata al dipartimento di Economia della Seoul National University. Secondo Lee, l’economia di mercato sudcoreana prende origine dalla cultura e dalla società del paese, mostra caratteristiche nazionalistiche essendo plasmata dalla storia della Corea del Sud. Pertanto, secondo Lee, si può definire correttamente come un’economia di mercato di stampo nazionalista.
Dopo la guerra di Corea il Paese perse quasi tutti i suoi beni. I Chaebŏl si svilupparono in modo naturale dopo il 1945 e crebbero durante l’espansione economica gestita dallo Stato. Tra il 1960 e il 1980 si svilupparono nell’industria leggera e chimica, grazie all’accumulo delle risorse nazionali e con il sostegno di prestiti esteri. La maggior parte dei Chaebŏl operano nel campo della manifattura, escludendo la CJ, attiva nel campo dei mass media e nella cultura, e la Lotte, nel mercato della grande distribuzione.
Secondo l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza Economica), i conglomerati (traduzione dal coreano di “Chaebŏl”) che producono nel settore terziario non raggiungono neanche la metà di quelli che operano nel settore industriale. Infatti secondo l’Ocse la Corea attua una strategia di sviluppo che è legata all’esportazione; vengono prelevati capitali, risorse e manodopera dal settore terziario per essere inseriti nell’industria manifatturiera. I Chaebŏl sono tuttora il principale strumento di sviluppo dell’economia nazionale ed hanno sempre avuto il totale consenso dei governi sudcoreani. Lo slogan di queste corporazioni è lo stesso per tutti: la loro crescita e il loro successo appartengono a tutti. Esistono però due difetti :
- L’interesse comune non è rispecchiato nell’assetto aziendale;
- Queste corporazioni sono rigide, rendendo impossibile la creazione di nuove imprese.
Ipotesi di riunificazione coreana
Esistono piani per gestire una possibile riunificazione pacifica della Penisola coreana, nel caso in cui avvenisse il collasso del regime nordcoreano. I promotori del piano prevedono che un intervento militare straniero, richiesto da alcuni ipotetici leader ribelli nordcoreani, sarebbe salutato con favore per evitare una guerra civile in Corea del Nord. La popolazione vedrebbe con favore la fine del regime, le armi nucleari e i materiali verrebbero messi in sicurezza o affidati ad una potenza nucleare (USA, Cina o Russia); le Forze Armate nordcoreane sarebbero smilitarizzate, i funzionari e membri del regime (Partito e Governo) epurati e isolati.
In seguito l’economia nordcoreana dovrebbe subire una ricostruzione e la popolazione nordcoreana dovrebbe essere rieducata ad inserirsi nella nuova Corea. Nel giro di pochi anni l’economia della Corea del Nord (principalmente lo sviluppo delle risorse naturali, l’apparato industriale e la manodopera) diverrebbe parte integrante di quella del Sud. Questo darebbe slancio all’economia permettendo alla Corea unita di fare un salto di qualità nel panorama internazionale, trasformandola in un nuovo centro di potere dell’Asia.
In Realtà esistono forti rischi, anche in uno scenario positivo, su una eventuale implosione del regime di Pyongyang:
- La Corea del Nord, se si trovasse con le spalle al muro, potrebbe inviare ad alcuni “Stati canaglia” o gruppi terroristi armi nucleari, chimiche e biologiche, sistemi missilistici e tecnologici;
- Guerra civile, azioni di guerriglia e sovversive e installazioni di basi di guerriglieri nordcoreani nel Sud;
- Esodo di rifugiati nordcoreani in Cina, Russia e Giappone anche con una rotta marittima, la quale creerebbe reti criminali legate a Pyongyang per il trasferimento di armi ,droghe e valuta contraffatta;
- In un futuro lontano, successivo alla nascita di un Corea unita, si potrebbero manifestare enormi tensioni sociali generate dagli ex nordcoreani e dalla loro sensazione di essere trattati da emarginati;
- L’esigenza di ricostruire l’economia e di rieducare i 25 milioni di cittadini del Nord potrebbe minare il potenziale economico di una Corea riunificata e questo potrebbe aumentare l’insoddisfazione dei sudcoreani verso la classe dirigente, aprendo ad una crisi politica;
- Un danno all’attuale status quo potrebbe minare la gestione da parte dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza di eventuali rivendicazioni. Infatti i due organi difficilmente accetterebbero l’annessione de facto di uno stato sovrano, quindi, almeno per un breve periodo, un ipotetico nuovo Stato coreano unificato sarebbe tecnicamente illegale. Ciò rischierebbe di scoperchiare un vaso di Pandora di rivendicazioni territoriali in Asia e nel resto del mondo;
- L’unificazione sarebbe vista da Pechino come una enorme débacle strategica e potrebbe aprire una nuova fase dello scontro Cina-Stati Uniti nella regione asiatica, che porterebbe ad una corsa agli armamenti nella regione e, in seguito, a livello mondiale.
FONTE IMMAGINI: ATLANTE GEOPOLITICO DELLA TRECCANI.