L’Italia è un Paese più povero di dieci anni fa. Non solo la produzione complessiva è inferiore ai livelli del 2006, ma sono crollati anche la competitività internazionale, la capacità di attrarre investimenti ed il salario medio. La crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti nel 2007 ha messo in evidenza tutti i difetti strutturali del sistema-Italia, che aggiunti ad una difficile convivenza con l’euro hanno reso difficile lo sviluppo del Paese.
Dal punto di vista tecnico la recessione in Italia iniziò nel 2008 ed ha il suo picco nell’anno successivo, in cui registrò un -5,5% nella crescita annua del PIL. A seguito del primo ciclo recessivo si aggiunse la crisi dei debiti sovrani, che si ripercuoterà anche nelle performance di crescita dell’intera economia dell’eurozona.
L’Italia ha subito le crisi ben più delle altre economie occidentali
In termini di crescita reale del Pil tra il 2008 e il 2009 l’impatto relativo in Italia fu peggiore persino rispetto a quello subito dalla Grecia; nel 2014 il livello di disoccupazione è il massimo registrato dal 1970. Tuttavia, i dati sulla bassa crescita e sull’occupazione non sono da soli in grado di spiegare il reale crollo del benessere in Italia. (Per approfondire i dati clicca qui)
La mancanza di appetibilità dell’Italia, causata dai suoi problemi strutturali, ha fatto diminuire gli investimenti privati, rispetto al PIL, al Sud del 5% ed al Nord dell’1,5% dal 1999 al 2015. L’Output gap del Paese calcolato dall’FMI, l’indice che misura la differenza tra l’effettiva crescita del PIL rispetto al potenziale iniziale, è negativo dal 1994 e non è mai salito sopra al -1%.
La classe media quella più colpita
La classe media è stata quella più colpita dalla stagnazione dei salari. La disuguaglianza in Italia è esplosa fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, con l’indice GINI (per approfondire l’indice Gini clicca qui) in costante crescita dagli anni ’80 ad oggi. Questo generale impoverimento sembra aver danneggiato soprattutto i giovani e le famiglie. La percentuale di ragazze e ragazzi tra i 14 e 25 anni che non studiano e non lavorano era del 26% nel 2017, molto superiore a quella di tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Arretratezza industriale
Il modello d’impresa italiano è spesso di stampo familiare. Secondo le stime dell’OCSE, oltre il 95% delle imprese italiane può contare su meno di 10 dipendenti. Questo modello di business ha garantito a tutto l’ecosistema una crescita costante dagli anni 50 agli anni 90, grazie all’estrema qualità dei prodotti. Le microimprese si sono però dimostrate incapaci di investire nel lungo termine, approfittare della digitalizzazione e curare l’aspetto di ricerca e sviluppo. Della mancanza d’innovazione ha risentito soprattutto la produttività. Il valore aggiunto per persona occupata registrato nelle imprese italiane con meno di dieci dipendenti è inferiore a quello delle concorrenti tedesche, francesi, belghe, olandesi e inglesi. Così come le piccole, anche le grandi imprese italiane si sono mostrate poco propense ad investire in ricerca e sviluppo.
Burocrazia e tasse
Secondo la Banca Mondiale, l’Italia è una delle economie avanzate con il sistema legale più complesso ed insidioso per le imprese. La lentezza della burocrazia, superiore a quella di tutti i principali Paesi europei, si traduce nella maggiore attesa nell’effettiva realizzazione di opere pubbliche e private. A rimetterci non è solo la bontà dell’esito degli investimenti stessi, ma la credibilità del Sistema-Paese in toto. Le inefficienze e gli sprechi della macchina pubblica italiana contraggono strutturalmente la possibilità di sanare le finanze dello Stato.
L’alto livello di spesa pubblica per il welfare che ha caratterizzato tutti gli anni ’70 (nel 1973 furono introdotte le celebri baby pensioni dal governo Rumor) ha portato all’aumento del livello della tassazione nel medio/lungo termine. L’ingigantirsi del peso fiscale sull’economia italiana ha continuato ad aggravarsi negli anni ’80, anche a causa del vertiginoso aumento degli interessi sul debito. Il picco della pressione fiscale arriverà così nei primi anni ’90, con lo sforzo per rientrare nei parametri di Maastricht ed entrare fin da subito a far parte della zona euro.
Il debito pubblico
Quello del debito pubblico elevato è oramai un argomento che infiamma le piazze. Questo non solo espone l’Italia ad un ipotetico, oggi impensabile, rischio-default, ma incide sulla capacità del settore privato di attrarre investimenti. Lo stock di debito, accumulato soprattuto tra gli anni ’70 ed ’80, è diventato un macigno per tutti i governi italiani degli ultimi 30 anni. E’ il debito stesso che alimenta i maggiori interessi che l’Italia paga rispetto agli altri Paesi dell’eurozona. Questo può aumentare il costo del denaro per imprese e famiglie italiane rispetto alle altre europee. Nonostante i parametri del Fiscal Compact (per approfondire clicca qui) fissino un livello massimo di rapporto tra debito e PIL al 60%, l’Italia viaggia oltre i 130. Questo è il principale elemento che incide nelle difficoltà ad ottenere flessibilità di bilancio da parte degli organi di controllo europei.
Instabilità del sistema finanziario
I maggiori interessi pagati dall’Italia dagli anni ’80 in poi rispetto a grandissima parte degli altri Stati europei ha contribuito a peggiorare la posizione generale degli istituti finanziari Italiani, principali detentori del debito pubblico. La Grande Recessione ha portato il sistema bancario italiano ad avere una mole di crediti deteriorati insostenibile.
Dal 2013 al 2017 si sono susseguiti i tracolli di Banco Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Monte dei Paschi, Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche. In tutte queste occasioni è servito un intervento dello Stato, non sempre sufficiente a risarcire le perdite dei risparmiatori. Altri sono i player che in passato (Unicredit, 2009) o di recente (Carige) hanno intercorso fasi di instabilità. La crisi del sistema bancario italiano mina la fiducia su cui il sistema stesso si basa, contraendo l’accesso al credito per imprese e famiglie italiane. Da un lato le banche italiane stanno smaltendo con successo i crediti deteriorati, ma dall’altro faticano ad erogare credito nonostante la politica monetaria iper-espansiva.
Bassa produttività ed istruzione inadeguata
Molte delle principali componenti che hanno contribuito alla stagnazione ventennale dell’economia italiana hanno a che vedere con la produttività. Ripristinare la crescita della produttività del lavoro permetterebbe di risolvere molti problemi economici. Oltre che una maggiore crescita del prodotto nazionale, darebbe un’impulso ai salari reali, all’occupazione ed ai valori dei conti pubblici rispetto all’andamento economico.
Parte della spiegazione che si può dare riguardo alla bassa produttività dei lavoratori italiani sta non solo nei limiti dell’industria in termini d’innovazione tecnologica e tecniche manageriali, ma anche nel basso livello di istruzione. La scarsa qualità del lavoro ha radici sia nella domanda che nell’offerta.
Nonostante gli studenti italiani passino più tempo sui libri della media europea e nonostante le università pubbliche e private italiane siano ben posizionate su tutti i principali ranking internazionali, persiste un’alta fetta di popolazione meno scolarizzata del resto d’Europa. La percentuale di giovani dai 25 ai 34 anni con educazione terziaria in Italia è meno della metà della Corea del Sud, inferiore a quella di Ungheria, Germania, Turchia, Portogallo, Grecia, Spagna, Polonia e Francia. In uno studio dell’OCSE del 2015, gli alunni Italiani sotto ai 15 anni nel 2015 hanno registrato performance in lettura, matematica e scienze naturali peggiori rispetto a quasi tutti gli altri Paesi occidentali. Il problema del mercato del lavoro dei giovani ha anche a che vedere che una domanda insufficiente di posti di lavoro che prevedano alti livelli di istruzione, che causa la forte emigrazione di neo-laureati.