Dopo anni di dibattiti e false partenze, finalmente ci siamo: la web tax è legge. Come molti già sapranno, si tratta di una particolare tassa che colpisce determinate società che operano su e tramite Internet. Scopriamone insieme la storia, i presupposti e le peculiarità.
Le prime proposte
I prodromi legislativi di quella che oggi viene definita come web tax risalgono al 2013. In occasione della Legge di Stabilità 2014, infatti, il Legislatore italiano introdusse una prima versione della web tax la quale, nonostante la denominazione, costituì un tentativo (forzoso) di assoggettare a tassazione italiana le operazioni B2B (business-to-business, ovvero le transazioni commerciali elettroniche tra imprese) aventi come oggetto l’acquisto di spazi pubblicitari e di link sponsorizzati.
In sostanza, la legge avrebbe imposto ai colossi del web di acquistare servizi pubblicitari esclusivamente da soggetti aventi una partita IVA italiana. Tale tentativo legislativo non vide mai la luce, dal momento che trovò la ferma opposizione della Commissione Europea, la quale contestò la violazione del principio di libera circolazione di beni e servizi all’interno dell’Unione: è evidente che tale norma avrebbe di fatto escluso dal mercato gli operatori sprovvisti di partita IVA italiana.
Di tutt’altra impostazione fu il secondo tentativo di legislazione, avanzato quattro anni più tardi. Tale imposta, definita web tax transitoria, non introdusse un vero e proprio prelievo fiscale, bensì una procedura di tipo collaborativo attraverso la quale le grandi imprese avrebbero potuto richiedere all’Agenzia delle Entrate la valutazione dell’eventuale sussistenza dei requisiti per essere tassate. Una situazione praticamente opposta rispetto a quella descritta precedentemente.
Per fare un esempio, in questo caso Google avrebbe dovuto interpellare lo Stato italiano affinché fosse quest’ultimo a verificare l’esistenza dei requisiti per sottoporre la stessa Google a tassazione nostrana. Una situazione idilliaca e difficilmente riscontrabile nell’ambito delle grandi multinazionali del web, che hanno dedicato interi settori alla pianificazione fiscale.
La competizione fiscale
Qui la trattazione diventa interessante. Le cosiddette Big Tech hanno infatti sfruttato un fenomeno consolidato da tempo e conosciuto come competizione fiscale, che vede contrapposti, in linea di massima, due stereotipi di paesi:
- I cosiddetti Welfare States, quali Francia, Germania, Italia e Spagna. Avendo un sistema fiscale più gravoso, dovuto a particolari fattori strutturali (invecchiamento della popolazione e sistemi educativi, sanitari e previdenziali di tipo pubblico), e un notevole peso nell’economia mondiale, essi possono imporre le loro esigenze di gettito alle multinazionali del web, e pretendono che ogni altra nazione faccia lo stesso.
- I cosiddetti Paesi importatori di capitale, quali Cipro, Malta, Hong Kong e Irlanda. Questi godono di fattori strutturali decisamente più vantaggiosi, grazie ai quali possono permettersi di adottare regimi impositivi favorevoli. In tal modo essi calamitano non solo gettito, ma anche e soprattutto investimenti, spese di gestione e know-how.
Le multinazionali del web, giocando in tal modo sulle lacune dei sistemi impositivi nazionali, ancora legati ad una concezione materiale dell’economia, riescono ad occultare gran parte del proprio fatturato.
Un nuovo approccio alla web tax
Passano gli anni, Internet diviene sempre più pervasivo e invade la nostra vita quotidiana; cresce esponenzialmente il fatturato di aziende come Amazon, Facebook, Google, e con esso l’attenzione dei Legislatori nazionali al tema della tassazione delle imprese digitali.
Due sono le novità legislative che hanno aperto la strada all’introduzione dell’attuale web tax.
La prima è la nuova nozione di stabile organizzazione. Per stabile organizzazione si intende generalmente una sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa straniera esercita la propria attività economica in uno Stato diverso da quello di residenza, producendo reddito.
Come accennato, fino a poco tempo fa i sistemi legislativi erano ancora basati su una concezione materiale dell’economia, motivo per cui era necessaria una vera e propria sede fisica affinché un paese potesse tassare un’impresa. Ma le imprese del web non hanno bisogno di sedi fisiche per la fornitura dei loro servizi, e inoltre stabiliscono le sedi legali in paesi a fiscalità privilegiata, eludendo la tassazione internazionale.
Solo con la Legge di Bilancio 2018, dopo anni di dibattiti internazionali, il Legislatore italiano ha introdotto una nuova tipologia di stabile organizzazione, basata non più sulla mera presenza fisica, bensì su «una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non far risultare una sua consistenza fisica nel territorio dello stesso». Le basi per il fuoco incrociato al binomio sede fisica-tassazione erano appena state gettate.
La seconda novità legislativa è costituita dal presupposto di localizzazione. A lungo dibattuto, esso era precedentemente individuato nel luogo fisico in cui si trovavano i server, i responsabili “materiali” dei servizi virtuali. Tuttavia, i server presentano la stessa criticità delle sedi fisiche: possono essere localizzati in paesi a fiscalità privilegiata.
La nuova web tax prevede invece un presupposto di localizzazione per la prima volta non fisico: l’indirizzo IP. Sostanzialmente l’indirizzo IP è un codice numerico che associa un dispositivo alla rete; grazie ad esso è possibile localizzare l’esatto punto geografico in cui si trova il dispositivo e dunque l’utente che lo sta usando. In tal modo, persino un turista che si trova in Italia e guarda una pubblicità su YouTube contribuisce a creare l’imponibile italiano della famosa piattaforma web.
La web tax oggi
La nuova web tax colpirà i soggetti esercenti attività d’impresa che, nel corso dell’anno solare precedente a quello di imposizione, abbiano realizzato congiuntamente:
- Un fatturato di almeno 750 milioni di euro realizzati in tutto il mondo, di cui
- 5,5 milioni realizzati in territorio italiano secondo i presupposti sopra citati.
Tali parametri hanno il preciso scopo di sterilizzare gli effetti della web tax sulle imprese italiane, le quali si troverebbero di fatto svantaggiate poiché su di esse graverebbero sia le imposte dirette (come l’IRES) che la nuova tassazione qui discussa.
Per quanto riguarda invece l’ambito oggettivo (Normato dall’art. 1, comma 37, della Legge 30 Dicembre 2018, n. 145), le tipologie di operazioni imponibili possono essere raggruppate in tre grandi macrocategorie:
- Vendita di spazi pubblicitari online (principale fonte di revenue di aziende come Google);
- Messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di entrare in contatto tra loro;
- Cessione di dati a fini commerciali (operata da società come Facebook).
Per quanto riguarda il secondo punto, è auspicabile che il Ministero dell’Economia e delle Finanze chiarisca puntualmente le casistiche tassabili, dal momento che il comma 37-bis esclude che possa essere tassata la fattispecie riguardante «la messa a disposizione di un’interfaccia digitale allo scopo esclusivo o principale di fornire servizi di comunicazione, contenuti digitali e servizi di pagamento».
Rimane invariata rispetto all’anno precedente l’aliquota, pari al 3% dei ricavi tassabili.
Le prime conseguenze
L’introduzione della web tax non è stata indolore. L’Italia ha sostanzialmente seguito la linea della Francia, il primo dei Big Euro ad introdurre tale imposta, che ha dovuto affrontare uno scontro diplomatico non indifferente con gli Stati Uniti: il presidente Trump, riconoscendo che i parametri soggettivi (750 milioni di ricavi minimi) sono pensati con lo scopo di colpire principalmente i Gafa – Google, Apple, Facebook ed Amazon – ha minacciato ritorsioni, arrivando al punto di scatenare quella che si potrebbe definire una Champagne War, ossia la solita ritorsione in termini di dazi. È per questo motivo che entrambi i Paesi hanno deciso di introdurre la cosiddetta sunset clause, ovvero un’apposita clausola che prevede la permanenza della web tax sino al raggiungimento di un accordo internazionale per l’introduzione di una tassa standardizzata.