Ogni grande azienda che si rispetti, dopo il boom che l’ha portata al consolidamento nel settore in cui opera, deve affrontare problemi comuni: atrofia organizzativa, ovvero sovraburocratizzazione, vulnerabilità, cioè incapacità di far fronte alle innovazioni e declino competitivo.
Yahoo sembra essere nella fase in cui queste difficoltà le sono piombate addosso tutte insieme: ancora barcollante dall’ammissione dello scorso settembre riguardo l’hacking di oltre 500 milioni di utenti, è notizia di queste ore che la società di Sunnyvale, California, abbia subìto un altro attacco da record nel 2013. Quest’ultimo ha superato il traguardo raggiunto dalla stessa Yahoo e l’ha persino raddoppiato: “oltre un miliardo di utenti a rischio”, si legge nel comunicato ufficiale. La breccia riguarderebbe non solo informazioni sensibili (nomi, numeri di telefono, password e date di nascita) di utenti comuni ma anche di funzionari del governo, dell’amministrazione della Casa Bianca, agenti CIA, FBI e militari.
Il problema fondamentale di Yahoo sembra essere dunque quello della sicurezza, un gigantesco passo indietro rispetto a competitors della Silicon Valley come Facebook e Google.
Fondata nel 1994 e conosciuta principalmente per il suo motore di ricerca e le “Yahoo Answer”, da anni offre servizi di comunicazione e di media. Dopo un decennio d’oro, in cui è riuscita a farsi largo fra Google e Bing, Yahoo vede un progressivo declino: prima si limita a riproporre i risultati di Bing (che hanno già indicizzazione automatica), poi licenzia oltre il 20% della forza lavoro e infine ammette un crollo degli utili del 90% (da oltre 300 a soli 21 milioni di dollari nel 2014). Nel 2015 chiude numerose sedi aziendali nel mondo e taglia altri 1700 posti di lavoro, confermando poi la volontà di una acquisizione nel luglio 2016 da parte di Verizon per 4.8 miliardi di dollari; l’obiettivo è quello di fondersi con AOL per creare un competitor degno degli altri media digitali.
Ma quanto pesano gli ultimi avvenimenti sulla possibilità di un’acquisizione?
Già da diversi anni il team dedicato alla sicurezza si stava scontrando con il CEO della compagnia, Marissa Mayer, la quale riteneva un’implementazione della sicurezza non solo un lavoro costoso, ma anche inconveniente, persino dopo l’hacking del 2014. In tale occasione il problema principale fu la breccia in parte del codice proprietario che permise la creazione di cookies falsi utilizzando account reali, con la quale i pirati informatici riuscirono a impersonare utenti attivi, ottenendo informazioni ed eseguendo azioni per conto delle loro vittime.
Dopo l’ultimo, massiccio attacco, un portavoce di Verizon ha dichiarato che “rivaluteranno la situazione Yahoo seguendo le indagini in corso e considerandone l’impatto, prima di trarre conclusioni”.
Intanto, le azioni della compagnia sotto attacco crollano instancabilmente, più del 6% in una sola settimana, dai 41,76 dollari di venerdì 9 dicembre ai 38,41 di giovedì 15.
Potrebbe dissolversi nel nulla dunque un affare da 4,8 miliardi e non basteranno certo i suggerimenti di “cambiare password e domande segrete”, come affermato da un comunicato Yahoo, per rassicurare la classe dirigente di Verizon. Proprio un avvocato di quest’ultima, Craig Silliman, ha comunicato che il nuovo attacco ha certamente danneggiato il valore di Yahoo e tale danno si rifletterà sul prezzo di acquisto.
E se da una parte Yahoo non viene invitata alla Trump Tower con gli altri big name della Silicon Valley per “aiutare a fare bene” (come affermato dallo stesso Trump), se un guru della sicurezza come Ben Johnson la critica affermando che “quando si dispone di questi enormi database di informazioni, contenuti tutti in posti simili, sono milioni – e ora miliardi – gli account perduti”, dall’altra la compagnia cerca di mostrare i denti: ci ricorda infatti che il servizio webmail è solo la punta di un iceberg che comprende assets come Tumblr, Flickr e Yahoo Finance.
Paolo Piparo