Il 29 febbraio è stato firmato a Doha uno storico accordo di pace tra gli Stati Uniti e i talebani. Esso cercherà di porre fine ad una guerra cominciata quasi 19 anni fa, precisamente il 7 ottobre 2001, dopo che gli integralisti islamici, capeggiati dal mullah Omar, si rifiutarono di consegnare Osama bin Laden al governo statunitense.
I contenuti dell’accordo
L’accordo di pace – firmato da Zalmay Khalilzad, capo negoziatore di Washington, e dal mullah Abdul Ghani Baradar per i talebani – prevede il ritiro completo dall’Afghanistan delle truppe, comprese quelle NATO, entro 14 mesi, a patto che i talebani rispettino gli impegni stabiliti, ossia intavolare dei negoziati di pace con il governo afghano, impedire la presenza di gruppi terroristici sul territorio e, quindi, contribuire a contrastare il terrorismo. Questo punto di svolta non metterà necessariamente fine alla guerra afghana (la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, durante la quale sono morti circa 2500 americani e un numero ancora più elevato di civili afghani), ma è sicuramente un punto di partenza importante per il futuro.
Il ritiro dei soldati statunitensi è iniziato nella mattinata del 10 marzo dalle basi militari di Lashkar Gah, capoluogo della provincia meridionale di Helmand, e dalla provincia di Herat, nell’est del paese. Gli Stati Uniti hanno al momento circa 12 mila soldati in Afghanistan, mentre gli altri Stati della coalizione ne contano circa 4 mila. Entro luglio 2020 le forze straniere saranno ridotte a 8600 uomini e verranno chiuse altre 20 basi, per poi passare al ritiro definitivo nei mesi successivi. In base alla situazione sul territorio, però, Washington avrà l’opzione di mantenere un contingente limitato per continuare la lotta contro i gruppi jihadisti.
«Se i talebani rispettano l’accordo, gli Stati Uniti inizieranno una riduzione delle forze basata su determinate condizioni», ha detto il segretario della Difesa Mark Esper, sottolineando che gli Stati Uniti non esiteranno ad annullare il patto se i talebani non dovessero rispettarne i termini. Anche il segretario di Stato Mike Pompeo ha tenuto a precisare che il ritiro sarà effettivo soltanto se i talebani rispetteranno tutti gli impegni, anche riguardo alla questione dei diritti delle donne.
I nuovi attacchi terroristici
A pochi giorni dall’accordo di pace e poche ore dopo che la Casa Bianca aveva reso nota la telefonata tra Trump e il mullah Baradar, è stata avviata dai talebani una raffica di attacchi terroristici che hanno colpito tre avamposti nella provincia di Kunduz, con almeno 12 soldati e 4 poliziotti uccisi e altri 10 militari presi in ostaggio. Gli attacchi hanno destato uno scetticismo generale sull’efficacia degli accordi di pace, tant’è che lo stesso presidente degli Stati Uniti ha ammesso in un’intervista che i talebani potrebbero tornare al potere dopo il ritiro delle truppe americane e alleate.
Non rassicura il fatto che fonti talebane in Pakistan abbiano dichiarato alla NBC che il gruppo integralista considera il processo di pace come un modo per garantire il ritiro degli americani, in seguito al quale ripartiranno gli attacchi al governo appoggiato dagli Stati Uniti. «Chiederemo alla leadership afghana e ad altre fazioni politiche – visto che gli Stati Uniti ci hanno riconosciuto – che ci venga riconsegnato il paese, pacificamente», ha spiegato alla NBC un appartenente al gruppo talebano.
Il 9 marzo hanno giurato contemporaneamente come presidenti Ashraf Ghani, riconfermato per un secondo mandato, e il rivale Abdullah Abdullah, ex vicepresidente afghano, che ritiene a sua volta di aver vinto le elezioni. L’attuale instabilità politica ha creato ulteriore scetticismo riguardo ad una possibile pace nel paese, proprio perché l’accordo del 29 febbraio è solo uno degli step necessari per arrivare ad una pace generale, che tuttavia deve passare indispensabilmente per un’intesa nazionale.
L’intervento dell’ONU
La situazione sembrerebbe essere migliorata dal 10 marzo, quando, oltre ad avviare il ritiro delle prime truppe, gli Stati Uniti hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’approvazione dell’accordo di pace, tramite una risoluzione che poche ore dopo è stata approvata all’unanimità. La bozza che Washington aveva chiesto all’ONU di approvare recita: «si chiede con urgenza al governo della Repubblica islamica dell’Afghanistan di portare avanti il processo di pace, anche partecipando a negoziati intra-afghani con una squadra di negoziatori diversificata e inclusiva, composta da leader politici e della società civile afghana, che includa donne».
Nei giorni successivi il presidente Ghani, come riportato dal suo portavoce Sediq Sediqqi, ha firmato un decreto per rilasciare 5000 prigionieri talebani sulla base di una lista fornita dagli integralisti islamici. In esso si legge che i prigionieri sarebbero stati rilasciati solo dopo aver sottoscritto l’impegno a non tornare mai più in guerra e solo dopo l’inizio di negoziati diretti con il gruppo militante, con i primi rilasci previsti per lo scorso 31 marzo.
Dopo una videoconferenza tra i rappresentanti del governo afghano, il Comitato internazionale della Croce Rossa, gli Stati Uniti e lo stato del Golfo del Qatar, il rappresentante speciale per gli Stati Uniti Khalilzad ha affermato in un tweet: «gli incontri continueranno a garantire che il processo proceda senza intoppi. Questo consenso è un passo importante che avvicina significativamente le parti ai negoziati intra-afghani».
Il conflitto in Afghanistan, iniziato dagli Stati Uniti perché considerato di più facile esecuzione e di minore durata rispetto ad un intervento in Iraq, si è rivelato una sorta di cigno nero per Washington, ma ora sembra essere arrivato a un punto di svolta. L’accordo di Doha è sicuramente un passo in avanti ma, come già detto, la pace generale del paese non può prescindere da un accordo intra-afghano. Il ritiro delle truppe e le parole di Khalilzad fanno ben sperare per l’immediato futuro: adesso la palla passa alle due parti.