La guerra civile iniziata nel 2014 e che ha portato nel caos la Libia attraverso lo schieramento delle milizie ribelli guidate dal generale Khalifa Haftar, un tempo sostenitore della politica di Gheddafi, contro il governo di Tripoli con a capo il presidente Fayez al Serraj, rischia oggi di ribaltare i rapporti diplomatici tra i vari Stati che circondano il Paese, ognuno portatore dei propri interessi e pronto a guardarsi le spalle da “amici e nemici”.
In particolare i nuovi protagonisti sono Erdogan e Putin che stanno sostenendo militarmente le opposte fazioni sul territorio; da pochi giorni, con un voto del parlamento, la Turchia ha autorizzato l’invio di truppe a sostegno di Serraj e, nel frattempo, stipula accordi con Algeri per quanto riguarda l’acquisizione di basi e logistica. Mosca ha invece rifornito le milizie di Haftar con mercenari e armi d’avanguardia in grado di abbattere droni, definendo così un nuovo schieramento: mentre prima era l’Europa a ricoprire un ruolo rilevante in Libia, con l’Italia a favore del governo di Tripoli, ora sono Russia e Turchia ad ambire alle risorse libiche situate nel cuore del Mediterraneo.
Clima di tensione
Il territorio risulta diviso sostanzialmente in due blocchi: ad ovest il governo di Tripoli sostenuto dall’Onu, ad est l’esercito di Haftar sostenuto da Russia ed Egitto. All’interno di un vortice di tensione e sotto la pressione di Turchia e Russia che hanno chiesto il “cessate il fuoco”, le truppe di Haftar, al contrario del governo, hanno dichiarato di non essere disposte a posare le armi e ,dopo aver conquistato parte delle aree di Sirte, si dirigono verso Misurata, territorio presieduto da 300 soldati italiani impegnati nella missione Ippocrate; la situazione ricade nel caos. L’Italia è, quindi, chiamata a munirsi di una strategia diplomatica quanto più efficace e rapida per far fronte alla criticità di un possibile scontro. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affermato “mettere in sicurezza la Libia significa mettere in sicurezza anche l’Italia”.
Diplomazia tra Roma e Tripoli
Roma e Tripoli sono legate dal Trattato di Bengasi che ha ad oggetto interessi energetici, Eni estrae il 70% del petrolio libico, ed interessi militari, ovvero contenere l’emergenza immigrazione che ha messo in ginocchio l’Europa intera. Nonostante ciò il governo italiano sembra peccare di risolutezza dopo il fallimento della mediazione tra le due fazioni libiche, in cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha pregato, prima, Haftar di presentarsi ad un incontro diplomatico per trovare una soluzione tramite dialogo, poi, ha ricevuto un “due di picche” da parte di Serraj a cui era stato rivolto lo stesso invito, ma che, risentito per ospitalità offerta al proprio nemico, ha deciso di non presentarsi.
L’Italia ha in questo modo lasciato un pericoloso spazio vuoto che altre potenze, quali Russia e Turchia, sembrano disposte a voler occupare, ponendosi in primo piano sulla questione libica e cercando di imporre la propria egemonia sul territorio. Dunque la politica estera italiana si è rivelata poco concreta e priva di un forte consenso interno capace di fornire un immagine credibile all’esterno, raggiungibile, quest’ultima, non attraverso inutili e formali discorsi, ma agendo nell’interesse della nazione mediante una chiara linea politica e, qualora fosse necessario, un piano militare adeguato.
Una possibile soluzione: l’Europa
In attesa della convocazione per la Conferenza di Berlino che “consentirà di mettere attorno ad un tavolo tutti gli attori di questa crisi” come ha affermato Luigi Di Maio, l’Europa ha il dovere di riprendere le redini del destino degli Stati internazionali, cercando di portare al margine i singoli interessi dei vari membri e stabilendo una politica unitaria, autorevole e decisiva. Solo una coalizione forte, dal punto di vista diplomatico e militare, potrà riaffermare l’Europa come potenza e non lasciarsi scavalcare da forze più compatte come Usa, Cina e Russia. Qualora ciò non dovesse verificarsi si aprirebbero le porte di un futuro declino in cui la Libia sarà lasciata alla mercè delle grandi potenze mondiali, a discapito di chi ha reso la diplomazia una mera retorica militare.